“I miei stupidi intenti” di Bernardo Zannoni
Recensione di Beppe Orlando
Archy, un cucciolo di faina, deve imparare in fretta a sopravvivere alle leggi della natura, amorali per definizione, alla lotta spietata degli istinti che rispondono solo a se stessi. Ma non sa che il destino ha in serbo per lui ben altro. Azzoppatosi nell’assalto ad un nido di pettirossi, Archy viene “ venduto”, perchè ritenuto un peso, dalla madre rimasta vedova, alla volpe usuraia Solomon, tanto abile quanto spietata a trasformare le disgrazie altrui in affari d’oro. Ma la volpe, che porta avanti la sua lucrosa attività protetto dal fido Gioele, un cane dedito al “lavoro sporco”, nasconde un segreto: un libro con le parole dell’uomo e di Dio “il padre degli uomini”.
L’incontro con il “frutto proibito della conoscenza” trasformerà l’esistenza di Archy, che da quel momento dovrà fare i conti con il dubbio e con la ricerca di senso. La sua vita, mentre si arricchisce di parole, perderà la sua semplicità istintuale per conoscere una nuova sofferenza, quella della coscienza di sè e della paura della fine: ‘“ la terribile scoperta della morte mi tolse il sonno e mi rese fiacco, lasciandomi annegare in una silente disperazione…..il mio rapporto con la vita era scomparso dietro la coscienza della fine..”Combattuto tra il richiamo degli istinti ed il potere della parola, vivrà fino alla fine, facendo i conti con la sua doppiezza. Riuscirà a dare un senso ai suoi tormenti grazie alla parola scritta : “avevo intrappolato la mia prigione nella carta, ero di nuovo libero e triste”, parole che si fanno pagine e pagine che diventano libri, al tempo stesso cura nella verità e testimonianza: “..tienili sempre con te, sono un tesoro, ti diranno tante verità, ti faranno male, ma non potranno mai ingannarti su quello che sei, su quello che siamo..”
Un racconto sull’eterno conflitto tra istinto e ragione e sulla forza della parola, la vera protagonista di queste pagine. Parola che può facilmente diventare strumento di potere e di inganno oppure portare alla libertà della conoscenza , come ci insegnano le diverse parabole della volpe usuraia e della faina zoppa, strumenti di un’ efficace allegoria che, utilizzando il mondo animale a suggerire la pre-condizione umana agli albori della conoscenza, allude al mistero dell’evoluzione dell’uomo ed ai suoi stupidi intenti per “superare” la propria finitezza , “per scappare come tutti dall’inevitabile” ,come confessa alla fine Archy che risolverà la sua doppia natura davanti all’appuntamento fatale, decidendo di affrontarlo “come un vero animale, perchè è questo che sono”. Perchè è questo che siamo tutti, davanti alla fine, sembra dirci l’autore di questo sorprendenti pagine.
Recensione di Roberto Giachero
Bisogna praticare la sospensione dell’incredulità: questo è il primo presupposto per accingersi ad una lettura godibile e non prevenuta de “I mie stupidi intenti”, romanzo d’esordio del giovane scrittore Bernardo Zannoni, e poi proseguire tra le pagine con l’atteggiamento curioso e indagatore del bambino che ascolta una fiaba chiedendosi continuamente “Perchè la volpe fa così? – Perchè la faina dice questo?” e scoprire così che il libro dà risposte a domande che avevamo perso l’abitudine di farci, vuoi perchè abbiamo dato per scontato di sapere la risposte o forse per il pudore di riscoprirci troppo giovani, troppo ingenui.
Seguendo la vicenda “umana” della faina Archy, animal sapiens protagonista del libro, e degli altri personaggi che popolano il suo mondo, spietati o dolenti, istintivi o controllati, insensibili o romantici, personaggi che sembrano provenire ora da un mito di Esopo, ora da una favola di Fedro, da una metamorfosi di Ovidio piuttosto che parenti stretti del riccio e della volpe di Archilloco (“La volpe sa molte cose, ma il riccio ne sa una, importantissima.”), ci si interroga sulla nostra relazione con gli oggetti, il tempo ed i suoi cicli, la memoria e cosa farsene, la famiglia nella quale nasciamo e quella che ci scegliamo, i momenti in cui nelle nostre vite “animali”, puramente biologiche, si aprono squarci di coscienza, spesso associati a grandi dolori o grandi gioie, contemporaneamente con l’incapacità di comprendere a pieno quello che ci sta succedendo, con la sola consapevolezza di vivere una condizione che non ci appartiene in esclusiva ma che condividiamo con l’universalità del creato.
E’ un racconto che apre a riflessioni sull’idea di natura e sulla nostra volontà di addomesticarla, incapaci di comprenderne la leopardiana indifferenza alle nostre vicende, ma anche uno spunto per ragionare sulla scrittura e sul sapere come viatici per l’immortalità e sulla loro forza salvifica ma anche dannante; quando Archy lascerà la sua eredità spirituale al riccio, tramanderà tutto il suo sapere tranne il concetto di Dio e di morte per preservare l’amico dalla sofferenza di conoscere la propria caducità e infinita piccolezza.
Ma a me piace pensare al protagonista del romanzo come ad un discendente dei giovani mammuth di un racconto delle Cosmicomiche di Calvino, quando comprendono, all’alba del mondo, che “la vita è adesso che comincia, eppure è chiaro che quel che desideriamo non lo avremo”.