La Nave di Teseo, 2019

Autore: Sandro Veronesi

Nato a Firenze nel 1959. Laureato in architettura. Vive a Roma.
Autore di molti libri e vincitore di svariati premi.
Caos calmo, pubblicato nel 2005 , vincitore del Premio Strega nel 2006 e nel 2008 del Prix Femina e del Prix Mediterranee, è stato tradotto in venti paesi.
Ha collaborato e collabora con quotidiani e riviste letterarie.
Premio Strega 2020, il secondo ottenuto dallo scrittore toscano, dopo quello del 2006 per Caos calmo

 

 

 

Recensione di Chiara Sarasini

Sandro Veronesi (Firenze 1959) ha vinto numerosi premi, in particolare due Premi Strega. Nel 2006 con “Caos calmo” e nel 2020 giustappunto con “Il colibrì”. Prima di lui, solo Paolo Volponi aveva raggiunto questo risultato.

Marco Carrera è il protagonista del romanzo. Medico oculista è lui il colibrì del titolo. Prima, da ragazzino, chiamato così dalla madre perché, sia pur bellissimo, è minuto e basso per la sua età, poi riconosciuto come tale perché mette tutta la forza e l’energia per stare fermo e resistere nelle situazioni, così come il colibrì sbatte freneticamente le ali per stare fermo di fronte al fiore che ha scelto.

Il romanzo percorre l’intera vita di Marco Carrera, dall’infanzia in Toscana come figlio di mezzo fra una sorella ed un fratello, alla nonnità ed alla fine della vita. La storia termina con la stessa frase che chiude l’incipit: “Preghiamo per lui, e per tutte le navi in marepg. 15 e pg. 355, ma la narrazione ha ancora spazio per un altro brevissimo capitolo che parla d’amore.  

E davvero accadono tante cose disparate nella vita di Marco Carrera, amore ma anche molto dolore, raccontate con una cronologia  non lineare, come ormai troppo spesso accade nei nuovi romanzi. I capitoli si alternano mescolando in continuazione i tempi, tanto che ciascuno ha nel titolo l’indicazione dell’anno in cui accadono i fatti narrati, forse per aiutare il lettore a districarsi.

Lo stile è fluido, ma anche articolato e ricco di parole e riferimenti, con un ritmo che a volte si intensifica con periodi lunghi e densi. Vengono utilizzate spesso ripetizioni e iterazioni che caratterizzano atmosfere e personaggi. Fin dall’incipit queste caratteristiche sono evidenti: “Il quartiere Trieste di Roma è, si può ben dire, un centro di questa storia dai molti altri centrip. 13. L’espressione “si può ben dire”, viene ripetuta cinque volte nell’arco delle due pagine che compongono il primo capitolo, compreso il titolo stesso. Ancora, qualche riga più sotto nuovamente si richiama la caratteristica del romanzo che il lettore ha appena iniziato a leggere: “Mettiamola così: una delle cose che succedono in questa storia dalle molte altre storie succede nel quartiere Trieste, a Roma, in una mattina di metà ottobre del 1999” p. 13. 

La scrittura è solitamente ricca ed avvincente. Alcuni capitoli sono perfetti nel ritmo e nello stile, ad esempio quello intitolato “Gloomy Sunday (1981)”, che corrisponde ad una svolta molto tragica degli eventi ed è in grado di agganciare e tenere in sospeso il lettore fino alla conclusione. 

Non sempre però tale abilità di scrittura risulta al servizio della necessità narrativa. La stessa prospettiva dell’Uomo Nuovo, la nuova creatura che rende nonno il protagonista, non è così ben motivata ed il lettore ne resta fuori, poco coinvolto. Insomma, accanto a sviluppi narrativi molto ben strutturati e coinvolgenti, altri sembrano meno ispirati e sinceri. 

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Recensione di Silvia Focardi

Romanzo. Il protagonista, Marco Carrera, è l’io narrante.

La trama è sovrabbondante… la vita del protagonista è un susseguirsi di avvenimenti per lo più infausti…

Nel corso del romanzo capita tutto : genitori estranei uno all’altro,suicidio della sorella, conflitti col fratello, la figlia Adele con strano disturbo, separazione traumatica dalla moglie, amore platonico con Luisa, amica d’infanzia ( amata anche dal fratello, motivo del conflitto con quest’ultimo), morte per incidente della figlia Adele,che nel frattempo ha avuto una bambina e, se non bastasse, suicidio assistito di Marco con partecipazione di tutti i coprotagonisti.

Mi è sembrato veramente troppo!!!

Lo stile è pesante:frasi lunghissime, termini e concetti ripetuti ossessivamente che però non creano emozione.

Più piani narrativi che forse dovrebbero rendere più movimentato il racconto.

Più generi mescolati: narrazione, lettere, dialoghi, lunghi elenchi di oggetti lasciati dai genitori…

Complessivamente il romanzo, costruito in modo molto freddo, risulta noioso e poco credibile. Non appassiona, non crea empatia per le molteplici disgrazie del protagonista.

 

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Recensione di Beppe Orlando

Marco Carrera è “Il Colibrì”. Il soprannome se lo porta dietro fin dall’infanzia a causa della bassa statura, ma l’appellativo troverà la sua vera ragion d’essere nell’età adulta perchè, allo stesso modo del Colibrì che impiega tutte le energie del suo battito d’ali per rimanere fermo, il protagonista del romanzo dedicherà tutta la sua forza interiore per non andare alla deriva, per essere un punto fermo per se stesso e per le persone che lo circondano, per “resistere alle percosse e alle ingiurie di una sorte oltraggiosa”.

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“All’interno dell’ambulatorio egli sta prescrivendo una ricetta…..All’esterno il destino sta aspettando di travolgerlo per il tramite di un ometto basso di nome Daniele Carradori…….” L’incipit del romanzo di Veronesi, in virtù di uno stile narrativo particolare, cattura da subito il lettore inchiodandolo ad una storia che non viene raccontata nel suo svolgersi, bensì annunciata come qualcosa di inevitabilmente destinato a compiersi di lí a poco. Una sospensione temporale che, tra l’annuncio ed il compimento degli eventi, traducendosi in tensione narrativa, rappresenta la forza di questo racconto che inizia negli anni 60 per terminare in un’immaginaria e discutibile visione futura nel 2030.

Marco vive un’infanzia e un’adolescenza felice senza accorgersi dei contrasti esistenti tra i genitori (che non sfuggono invece alla sorella di quattro anni più grande) eccellendo nello sci e nel tennis anche se fin dai primi anni denuncia un difetto di altezza per una forma di ipoevolutismo che verrà poi superato grazie ad una terapia ormonale all’avanguardia.
La famiglia Carrera, apparentemente felice, vive nell’agio e trascorre le vacanze a Bolgheri nel cuore della Maremma in un elegante casolare ristrutturato . Bolgheri sarà per Marco il luogo della scoperta dell’amore (platonico) di tutta una vita, oltre che il proscenio della tragedia di Irene: due eventi che saranno indissolubilmente legati.
In un continuo utilizzo del salto temporale tra un capitolo e l’altro che rischia però a mio avviso di confondere il lettore veniamo a conoscere tutti gli eventi che hanno segnato la vita del protagonista: alcuni al limite del surreale , altri tragici che rappresentano delle svolte dolorose nella vita di Marco che, nonostante tutto, continuerá però a resistere senza cancellare il passato, ancorché doloroso, impegnandosi anzi nella conservazione delle “cose di famiglia” e a “
tenere insieme un piccolo fragile mondo che senza di lui si sarebbe dissolto in un soffio” rappresentando un punto fermo per chi gli rimane accanto: Luisa con la quale intratterrà tutta la vita un amore epistolare, le cui lettere diventano capitoli a se stanti e trait d’union delle vicende raccontate; il fratello Giacomo , “scappato” negli Stati Uniti, anch’esso innamorato di Luisa, con il quale cercherà di ricucire una ferita legata alla morte della sorella; la figlia Adele , avuta da un matrimonio basato su di una menzogna,
ed infine la bellissima nipote Miraijin che in giapponese significa Uomo del Futuro: “
Sarà l’uomo nuovo, papà” le dirà Adele annunciandone l’attesa e rallegrandosi poi al momento del parto per il sesso della nascitura: Visto papà si comincia bene, l’uomo del futuro sarà una donna”. Miraijin diventa la ragione della “resilienza” del protagonista, quasi che quanto accadutogli fosse inevitabilmente necessario allo scopo di regalare al mondo colei in grado di salvarlo: “tutto il dolore provato negli anni diventava il basalto sul quale si fondava il mondo nuovo”. “le dolorose vicissitudini che avevano segnato la sua vita avevano uno scopo, nulla gli era capitato per caso”. Bellissima, incrocio di razze, a rappresentare “la più luminosa integrazione tra i popoli”, enfant-prodige ma con basso profilo, eletta tra gli eletti, aliena e familiare al tempo stesso, diventerà la guida di una nuova umanità capace di sopravvivere alla rovina causata da quella vecchia che ha messo in pericolo il mondo e di combattere la battaglia finale per il trionfo della verità.

Un libro indubbiamente ben scritto e che ti cattura per come la storia viene raccontata: quel descrivere gli eventi come il risultato inevitabile della concatenazione quasi preordinata di altri fattori. Alcuni capitoli sono dei veri capolavori di intensità e tensione narrativa.
Un libro potente caratterizzato da personaggi unici e dall’efficace intuizione del colibrì come metafora della tenacia e della sopportazione umana di fronte a quanto di più doloroso possa capitare.

Peccato lo scivolone finale dell’Uomo Nuovo. Da quel momento il racconto perde di intensità ed il pathos generato dalla drammaticità e dalla descrizione degli eventi accaduti sfuma in una visione alquanto sconclusionata di un ipotetico futuro.
Non si capisce perchè l’autore abbia sentito la necessità di “nobilitare” le sofferenze del protagonista giustificandole come necessarie alla nascita di un poco credibile “uomo nuovo” descritto alla stregua di un messia-supereroe.

E’ difficile dare un giudizio complessivo su questo libro. Perchè se si esclude la parte dedicata all’”Uomo Nuovo” il libro è quasi perfetto, ma il dilemma sta proprio in questo: è corretto dare un giudizio parziale quando il senso della storia non può prescindere, volente o nolente, da quel manifesto utopico e didascalico del mondo ideale enunciato dall’autore stesso che svestendo l’abito del racconta-storie per vestire quelle del demiurgo, vanifica,
in un azzardo letterario, quanto (tanto) di buono è presente nel libro?

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Recensione di Elisabetta Robbiano

Ho letto questo libro in pochissimi giorni: il racconto è accattivante e teso, suscita la curiosità e la voglia di andare avanti.
Il romanzo racconta la storia di un uomo nell’arco della sua intera vita, dagli anni 60 sino ad un futuro prossimo, nel 2030. Il protagonista è di famiglia agiata, fa il medico oculista, è un uomo del nostro tempo. La sua vita viene sconvolta a più riprese da eventi drammatici e tragici, sin dall’infanzia: la morte della sorella, una difficile separazione dalla moglie, la morte della figlia, l’”accompagnamento” alla morte del proprio padre con eutanasia, sino alla propria morte.

Ma è anche una vita di legami con diversi amici che si rivelano eterni.
Con la forza
di un colibrì, che impiega tutte le energie del suo battito d’ali per rimanere fermo, così il protagonista si ingegna in ogni modo per non soccombere alle tragedie che lo accompagnano nella vita e per essere, sempre e comunque, resiliente.
Nonostante i continui salti temporali, a volte confondenti, la storia si legge complessivamente in modo abbastanza lineare.

Il romanzo mi sembra raccontato con pigliomaschile.
Del protagonista viene raccontata la storia con assai pochi riferimenti agli effetti emotivi degli eventi che lo colpiscono, quasi che sia incapace di esprimere, o anche di provare, il dolore che essi dovrebbero suscitare. Le vicende, mentre sono narrate, appartengono già al passato, quindi Marco, il protagonista, ne è già lontano, le ha già elaborate, ne ha già preso le distanze.
Ne viene fuori un personaggio quasi
stoico, il cui stato psico-emotivo, il dolore, non è mai espresso: è solo descritto, e solo intuibile. Galleggia sempre
Non so se sia voluto dall’autore.
Forse era nei suoi obbiettivi: narrare la resistenza e la resilienza, alla stregua del colibrì: il protagonista non può cedere, non può permettersi di piangere o far emergere l’angoscia, e peggio ancora non può permettersi di farsene influenzare.
Dall’altra potrebbe essere l’autore stesso (di cui ho letto solo questo libro) ad essere incapace di “sondare” il registro dell’intimità emotiva del suo personaggio. Come forse riescono a fare assai meglio le scrittrici donne.
La nipote Miraijn mi è apparsa decisamente idealizzata,
un “avatar”, come scrive l’autore stesso, eccessiva, il suo ruolo come protagonista del movimento per l’Uomo Nuovo non mi ha né coinvolto né convinto, un pofuori luogo rispetto al romanzo stesso.
Chissà se Veronesi è già nonno: quasi ho colto le tipiche aspettative di un nonno nei confronti del nipote sul quale investe, immagina e spera il massimo ed il meglio, anche in relazione al chiudersi della propria vita.
Le vicende
dell’eutanasia, del padre e del protagonista, sono raccontate con apparente naturalezza: per me sono scelte drammatiche, questa naturalezza non mi appartiene, non so se mi apparterrà mai, Un giorno, forse…

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Scheda tecnica di Giuseppina Filippi